Il territorio della nostra conoscenza nasce e rimane limitato. Viviamo molti interrogativi dirompenti relativi alla nostra esistenza, cui la scienza non ha trovato e non trovera’ mai risposta. Diceva Immanuel Kant che «… La ragione umana viene afflitta da domande che non può respingere, perché le sono assegnate dalla natura della ragione stessa, e a cui però non può neanche dare risposta, perché esse superano ogni capacità della ragione umana».
Per Eugene Ionesco “un opera d’arte e’ soprattutto un’ avventura della mente”. E’ comunque con l’arte e non con la scienza, che esprimiamo cio’ che vediamo dal di dentro. L’arte ci puo’ far comprendere la realta’ a volte meglio e prima della scienza, ma rimane comunque un potente mezzo terapeutico che le menti piu’ aperte hanno da tempo utilizzato per alleviare le sofferenze dell’uomo.
Nella storia dell’arte, l’autoritratto incarna l’urgenza dell’uomo di dare espressione alla sua realtà interna, identificandosi con un’immagine di sé che sia effettivamente in grado di rappresentarlo e di rispecchiarlo. L’immagine creata, per l’autore, e’ la traduzione delle sue emozioni, della sua vita interiore.
“ Vi svelo il mistero dei misteri. Gli specchi sono le porte attraverso le quali la Morte va e viene. [..] D’altronde, guardatevi per tutta la vita in uno specchio e vedrete la Morte lavorare come le api in un alveare di vetro” (Cocteau, 1963, p. 40).
L’idea dell’autoritratto come modalità per sconfiggere la morte appartiene a quasi tutta la letteratura artistica e, in qualche modo, e’ all’origine di essa, a partire da quel Narciso che, dopo aver amato la sua immagine senza riconoscerla, nell’imminenza della morte, affida proprio ad essa la sua speranza di sopravvivenza: “ solo vorrei che vivesse più a lungo questa, che tanto ho cara” (Ovidio, Metamorfosi, III, 472).
Oggi assistiamo ad un utilizzo compulsivo e sequenziale dell’autoritratto attraverso i selfie, espressione del tentativo di riassestamento nella relazione della propria immagine denaturata e degenerata da una cultura occidentale che ha perso ogni valore e riferimento.
Lacan, nella sua descrizione delle tre fasi dello specchio, affermo’ che il momento cruciale in cui si costruisce l’identità del bambino, che ricostruisce l’ unità al suo “corpo in frammenti”, avviene nel momento in cui egli si riconosce e si identifica in quell’immagine, altra, che prima non riconosceva come propria.
Per rappresentarsi il soggetto deve osservarsi dall’esterno, deve fare un passo indietro rispetto al processo descritto da Lacan, deve tornare a vedersi come fosse un altro, a non riconoscersi più nello specchio: in una parola deve disentificarsi rispetto all’immagine dello specchio.
“ L’artista o l’operatore culturale di oggi, può aiutare la crescita culturale della collettività. Può preparare gli individui (a cominciare dai bambini) a difendersi dallo sfruttamento, a smascherare i furbi (invece di ammirarli o invidiarli), a esprimersi con la massima libertà e creatività. Può continuare la tradizione invece che ripeterla stancamente (Munari, 2008) “.
E’ urgente trasformare il modo di pensare l’educazione all’arte nei musei e nelle scuole, offrendo ai bambini occasioni di vera libertà espressiva, e rivalutare il ruolo pedagogico dell’ arteterapia. Ai nostri figli oggi, invece, offriamo lo spettacolo orrido ed indecente della TV, rendendoli gli schiavi di domani.
Di questo e di altri temi ne discuteremo nella tavola rotonda in occasione della presentazione del libro “Pensare l’Artetarapia”, il prossimo 22 Novembre alle ore 16:30, presso il Museo Etrusco di Villa Giulia in Roma, Piazzale di Villa Giulia, 9 – 00196 Roma